La storia d’amore tra la Lazio e Klose, l’unico campione del mondo straniero in biancoceleste

di | Dicembre 22, 2021
klose

Opole è una città polacca di medie dimensioni, famosa, all’interno dei confini nazionali, per essere il luogo dove annualmente viene svolto il festival musicale nazionale. Eppure, questa località, sconosciuta ai più in tutto il mondo, ha dato i natali al calciatore che, numeri alla mano, ha segnato più goal nella storia dei Mondiali: Miroslav Klose, per tutti “Miro”.

Una storia particolare, la sua. Di un bambino nato sul finire degli anni ‘70 in una città che è stata sotto l’egida della Germania sino al termine della seconda guerra mondiale e annovera una forte comunità di origine tedesca, di cui faceva parte anche la famiglia Klose. La vita polacca di Miro, però, dura poco: all’età di otto anni, infatti, si trasferisce con la famiglia in Germania, dove si forma come uomo e calciatore.

Miro Klose, attaccante moderno e completo: l’esperienza doubleface al Bayern

Nel campionato tedesco gonfierà la rete per ben 121 volte, corroborate da 74 assist. Un dato, quest’ultimo, che conferma quanto Miroslav sia stato un attaccante poliedrico, in grado di giocare sia da prima che da seconda punta con egual efficacia. Un giocatore bravissimo nel rifinire, con un innato senso del gol e uno stacco di testa tra i migliori nella storia del calcio europeo, come testimoniato al debutto alla fase finale del “Campionato del Mondo” con le tre reti rifilate alla modesta Arabia Saudita.

Klose, però, è stato molto più di un finalizzatore: straordinario nel tenere palla, perno ideale per l’inserimento dei centrocampisti, come ben sanno tutti le mezzali di talento che hanno beneficiato della sua straordinaria bravura tattica, oltre che tecnica. Le prime due stagioni al Bayern sono l’esempio più lampante di quanto Miro fosse in grado di svolgere benissimo anche la seconda punta, annate in cui fece da spalla a Luca Toni esaltandone le doti realizzative.

Un’esperienza doubleface quella al Bayern: dopo le prime ottime stagioni, le successive due furono, con ogni probabilità, le più cupe della sua carriera. Louis Van Gaal, uno degli allenatori che ha segnato, profondamente, il calcio degli ultimi trent’anni, era una persona senza mezze misure. E con Miro, purtroppo, non scoccò la scintilla. Le due stagioni con l’olandese furono condite da pochissimi goal, tantissima panchina e una carriera, alle soglie dei 33 anni, che sembrava ormai chiusa ad alti livelli.

La voglia di riscatto per inseguire il sogno Mondiale

Non era di questa opinione, però, Joachim Loew, l’allenatore che ha sancito il definitivo riscatto del calcio tedesco dopo un decennio, quello intercorso tra il 1996 e il 2006, avaro di soddisfazioni e privo di grandi campioni, se si eccettua, forse, Ballack. L’ex tecnico dello Stoccarda, infatti, non smise di credere in Miro. Lo difese, lo sostenne.

Decise di schierarlo titolare ai mondiali sudafricani, primo step di una Mannschaft composta da una straordinaria nidiata di talenti che si trovarono, quattro anni dopo, in cima al mondo, laddove la Germania mancava da ben 24 anni. Ed è stata proprio la voglia di essere il “panzer” della nazionale tedesca che lo spinse, ormai trentatreenne, a provare una nuova esperienza lontano dalla Bundesliga.

L’amicizia con Igli Tare, suo compagno ai tempi del Kaiserslautern, fu uno dei motivi che portò Miro a scegliere la Lazio ed il campionato italiano, che, seppur ben lontano dai fasti di un tempo, rappresentava un’ottima vetrina per esibire e rifinire le sue grandi capacità tattiche a ritmi più blandi rispetto alla Bundesliga, che in quegli anni sfornava squadre, come il Dortmund di Klopp o lo Schalke di Rangnick, che giocavano a ritmi frenetici.

Debutto biancoceleste coi fiocchi: la Lazio di Reja chiude quarta grazie ai gol di Miro

La saggezza di Miro ben si sposava con la praticità della Lazio di Reja, squadra che badava al sodo e mirava ai tre punti tralasciando, talvolta, l’estetica. La prima annata di Miro a Roma fu, probabilmente, la migliore del tedesco in terra romana: 15 gol stagionali (3 in Europa League) e un quarto posto finale che all’epoca, però, non garantiva l’accesso in Champions League.

Una stagione entusiasmante per Klose. A tal punto che i tifosi biancocelesti, da sempre informati sulle notizie della propria squadra del cuore grazie a www.laziofamily.it,  decisero di eleggerlo come uno dei beniamini della Curva Nord. L’estate del 2012, però, fu agrodolce. Loew, spinto anche dalle pressioni di alcuni ambienti vicini al Bayern, lo relegò al ruolo di vice-panzer alle spalle di Mario Gomez, reduce da due annate eccezionali, perlomeno in termini realizzativi, con la maglia del più famoso club tedesco.

Un errore macroscopico, che costò svariate critiche a Joachim e portò molti calciofili teutonici a chiedere addirittura la testa del bundestrainer. Miro, però, ripartì la stagione successiva esibendo ancor più grinta e determinazione, desideroso di voler indossare la maglia della Mannschaft anche ai mondiali del 2014. Sulla panchina biancoceleste sbarcò Petkovic, che regalerà ai tifosi laziali uno dei momenti di maggior soddisfazione nella loro storia: la vittoria della Coppa Italia nella famosa finale contro la Roma, decisa da un gol di Lulic.

Il titolo di “Campione del Mondo” e quel debito di riconoscenza verso tutti i laziali

La terza annata di Klose a Roma, però, non fu altrettanto entusiasmante. La squadra non riuscì a replicare le ultime due annate: Petkovic fu esonerato in corso d’opera. Anche Miro, complice qualche guaio fisico, giocò un numero minore di partite, cercando di evitare qualsiasi problema in vista del Mondiale brasiliano, autentico “chiodo fisso” dell’ex attaccante del Werder Brema.

Una cura certosina del proprio corpo ripagata con la più grande gioia che un calciatore possa provare nel suo percorso professionale: diventare “campione del mondo”, l’unico straniero, fin qui, ad aver ottenuto questo titolo durante la propria militanza laziale.  Nonostante le iniziali panchine, dove la Germania non entusiasmò i critici, Miro divenne il perno dell’attacco tedesco dai quarti di finale in poi, risultando determinante nella vittoria contro la Francia, entrando nel tabellino dei marcatori nelle sette reti rifilate dalla Mannschaft ai padroni di casa del Brasile (una lezione di calcio che ha scritto la pagina più “nera” della storia del calcio verdeoro) e giocando 88 minuti nella vittoriosa finale contro l’Argentina.

L’addio alla Nazionale consentì a Klose di riversare la totalità delle proprie energie solo ed esclusivamente per la Lazio, con cui si sentiva in “debito” dopo averlo accolto, ormai trentatreenne, quando i grandi club gli avevano voltato le spalle e avergli consentito di poter vincere il Mondiale, oltre a diventare il miglior marcatore nella storia della più importante manifestazione per nazioni.

Da “Miro” a “Mito”: le ultime due annate di Klose in biancoceleste

La quarta annata in biancoceleste fu splendida. Chi si aspettava un Klose con la “pancia piena”, fu smentito da quanto esibito dallo stesso sul rettangolo verde, dove fu il trascinatore di una squadra che conquistò il terzo posto in Serie A (miglior piazzamento ottenuto sul campo, a tutt’oggi, da parte del club biancoceleste negli ultimi vent’anni) e arrivò in finale di Coppa Italia, grazie anche ai 16 gol (13 in campionato, 3 nella coppa nazionale) del proprio panzer.

L’ultima stagione di Klose a Roma, che coincise con quella dell’addio al calcio, fu segnata da un problema muscolare, che ne limitò l’utilizzo inizialmente e spinse Pioli, poi, a tenerlo spesso in panchina. Una serie di motivazioni che portarono ad un incredibile dato di fatto: alla ventinovesima giornata, Klose non aveva ancora segnato una rete in campionato.

Nelle ultime dieci partite, di cui tre non giocate per infortunio o scelta tecnica, Miro, diventato ormai per tutti “Mito”, diede vita ad uno straordinario ultimo scorcio di carriera, mettendo a segno sette reti, timbrando il cartellino negli ultimi tre match disputati da professionista e lasciando un ricordo indelebile nella mente, e nel cuore, dei tifosi laziali.